APPROCCI AL SOSTANZIALE | A cura di Lóránd Hegyi: 10 Maggio – 7 Giugno 2014
5 APPROCCI AL SOSTANZIALE Lóránd Hegyi “Come possono apparire ancora credibili…. le grandi narrazioni di legittimazione? Ciò non significa che nessuna narrazione sia più credibile. Per metanarrazione o grande narrazione io intendo precisamente delle narrazioni (narrations) a funzione legittimante. Il loro declino non impedisce a miliardi di storie, più o meno piccole, di continuare a fungere da trama del tessuto della vita quotidiana. …Nella narratologia generale sussiste un elemento metafisico, che non è stato sottoposto alla critica, un’egemonia che è stata data -prima di tutti- ad un genere e precisamente a quello narrativo, una sorta di sovranità delle piccole narrazioni che consentirebbe di sfuggire alla crisi di legittimazione. Esse sfuggono, questo è sicuro, ma solo perché non hanno nessun valore legittimante.” (Jean-Francois Lyotard: Annotazioni a margine alle narrazioni, 1984).
La sovranità delle piccole narrazioni, citata da Jean-Francois Lyotard, si basa sulla percezione del significato poetico delle microsituazioni sottili, immediate, apparentemente insignificanti, che riflettono le costellazioni antropologiche senza astrazioni ideologiche, e che possiedono dei legami empatici tra i vari contesti, tra diversi ambiti di vita e sistemi di linguaggio. Le piccole narrazioni, come sostiene Lyotard, non hanno alcuna pretesa di un valore generale legittimante, di alcun riconoscimento universale, astratto – e quindi eticamente e politicamente obbligatorio -, collettivo, addirittura ideologico; rimangono nell’ambito del poetico, del personale, del singolare, delle microrealtà suggestive con immediato effetto emozionale e immaginario. La loro sensibilità tocca le zone sottili delle costellazioni antropologiche; la loro interiorità empatica fa riferimento ad ambiti nascosti, intimi ed emozionali dell’orientamento umano; i loro accenni poetici aprono le vie verso escursioni e connessioni immaginarie. L’intimità silenziosa, apparentemente priva di eventi, senza pretese e fragile delle piccole narrazioni resiste all’ambizioso e forzato tentativo di generalizzazione e alla totalizzazione astratta, che cerca di subordinare gli svariati e innumerevoli eventi e le connessioni sottili ad un singolo sistema di base monolitica, ad un senso monolitico, assolutizzato. Anziché da gerarchia, totalità, linearità e necessità, le micro-narrazioni sono caratterizzate da fluidità, ambiguità, relatività e da costellazioni effimere, provvisorie, fugaci e singolari.
Nella crisi delle grandi narrazioni universali, totalizzanti, le quali non possono più offrire delle prospettive credibili di una generalizzazione storicamente ed eticamente realistica e antropologicamente sensibile, l’artista trova nelle micro-narrazioni le prospettive poetiche di un impegno empatico ed emozionalmente efficace.
Ciò comporta anche un approccio delicato, tollerante, capace di immedesimarsi nelle rispettive costellazioni antropologiche complesse e sottili, in cui la sensibilità poetica genera luoghi immaginari, rappresentazioni suggestive, nuovi legami, senza aspirare a una generalizzazione unilaterale, totalizzante astratta. L’effetto poetico di queste micro-narrazioni rimane sempre nell’ambito della responsabilità individuale dell’artista, rimane quindi singolare, concreto, immediato e personale. “L’insieme di tutto ciò che oggi è in gioco con ogni dichiarazione artistica, è garantito proprio da tale dichiarazione in quanto singolare; nella sua singolarità questa dichiarazione non è più “soggettiva” di qualsiasi altra, poiché nessuna dichiarazione ha il privilegio La sovranità delle piccole narrazioni Ruth Barabash, Nicolas Brun, Elzevir, Ugo Giletta, Dominika Horáková. 6 dell’obiettività. Tali tentativi e tali dichiarazioni nascono sì “nell’essere” ma non sotto i suoi occhi. Ogni opera rappresenta un micro-universo, “l’essere” non è nient’altro che una di queste rappresentazioni.” (1) La seconda edizione della serie di mostre intitolata “CAMMINO” continua il suo confronto con le opere di alcuni artisti, la cui pratica creativa e il cui interesse poetico si riferiscono agli ambiti immaginari delle micro-narrazioni ancora rilevanti. Tale rilevanza estetica racchiude dei momenti metaforici, coinvolge racconti illustrati, la cui singolarità suggestiva e la cui fantasia radicale creano legami tra esperienze e ricordi, tra connotazioni ed esperienze vissute, aprendo così prospettive immaginarie, senza accennare a costruzioni di pensiero astratte, astoriche, universali e totalizzanti. La rilevanza poetica ed empatica delle micro-narrazioni sta proprio nella loro concretezza, limitatezza, singolarità, nella loro partecipazione immediata nelle rispettive costellazioni antropologiche, non impiegando delle astratte narrazioni di legittimazione per giustificare gli accenni metaforici. “Ogni opera rappresenta un micro-universo” dice Lyotard, sottolineando che la vera rilevanza artistica delle rispettive micronarrazioni nasce all’interno della concretezza antropologica delle costellazioni uniche e singolari, la quale non necessita di alcuna legittimità astratta, costituita al di là della singolarità concreta del micro-universo, ovverosia mette in discussione questo genere di legittimità universale, monolitica. Con ciò viene anche posta in modo diverso la questione della responsabilità o della competenza dell’artista rispetto a quanto avviene nelle culture monolitiche, gerarchiche delle narrazioni di legittimazione mitologiche o scientifiche. Nel suo saggio “Pluralism, the Cosmopolitan and the Avant-Garde”, Andrew Benjamin analizza la pratica dell’arte contemporanea nel contesto della legittimazione dell’interpretazione e fa un’osservazione fondamentale inerente l’assenza dell’interpretazione unica collettivamente rilevante, legittimata dalla convenzione, del lavoro artistico: “…it is already clear that the conflict that marks the debate concerning the presence or absence of what Kristeva called `transcendent truth´, or what Lyotard calls `grand narrativities´, can only be understood and accounted for in terms of a theory of dissensus; one which recognizes the absence of a final resolution. In other words justice can only be done to dissensus within pluralism.”(2) Nelle epoche storiche culturali quando le grand narratives determinavano l’interpretazione del lavoro artistico con la loro validità universale e astratta, e quando avevano la funzione di un sistema di valori convenzionale, sottointesa e accettata dalla maggioranza della società, esisteva un sensus communis, definito da Michael Newman con “common reason”, il quale determinava non soltanto la strutturazione del contenuto e con ciò la forma adeguata dell’opera d’arte ma anche le direzioni dell’interpretazione. Questo “dissensus within pluralism” comporta il riconoscimento di svariati sistemi di comunicazione e valori, i quali si riferiscono alle rispettive situazioni reali, immediate. Non esiste una legittimazione di validità generale né una dichiarazione astratta, universale, né un unico, esclusivo, monolitico senso dell’evento; anzi, le dichiarazioni autentiche e le risposte adeguate derivano dalle realtà concrete, immediate, umane, uniche. Tali realtà “hic et nunc” nascono dall’interazione tra gli uomini nelle rispettive condizioni concrete, nel processo del lavoro e nella costruzione dei sistemi socio-culturali. Al posto delle dichiarazioni di validità generale, astratte, universali troviamo delle risposte determinate dalle rispettive realtà immediate e che riflettono i 7 sistemi di organizzazione e di valori del qui e ora, risposte che si rendono concrete attorno ai singoli partecipanti delle rispettive micro-comunità. In tale ottica Arthur C. Danto parla della “identità concreta”, la quale è sempre caratterizzata in modo concreto e reale dalla rispettiva complessità della situazione: “A self is not an abstract point of pure reason, the same in all times and climes and cultures. The self, rather, is the concrete product of many forces and causes, which mark it totally. It is in particular the embodiment of its culture, its gender, its traditions, its race… And so an adequate theory of morality must take into account the concreteness of concrete selves in their immediate societies. Whatever the outcome of such an inquiry, our ethics must acknowledge, must begin with, the multiplicity of our identities and what differentiates us as real.”(3) Il reale, che è stato plasmato dalle concretezze uniche, immediate, e come tale manifesta il rilevante antropologico in questa specifica singolarità del singolo e del concreto, non ha bisogno di generalizzazioni astratte, di legittimazioni assolutizzati e monolitiche, ma – al contrario – si riferisce alle esperienze immediate all’interno delle rispettive situazioni concrete. La concretezza e immediatezza del singolo, dell‘unico, del reale assume una dimensione metaforica, che fa riferimento alle esperienze sostanziali, in cui il sostanziale non include in sé la pretesa di una legittimazione astratta, universale e di validità generale, come accade ad esempio nei racconti mitici, religiosi o nelle ideologie politiche. Negli ultimi, il racconto è la legittimazione, è generalizzato, assolutizzato e santificato quale dichiarazione universale, spiegazione unica, punto di riferimento. Per questo motivo le grandi narrazioni a funzione legittimante, i miti, le religioni o le ideologie politiche non tollerano né la deviazione dalla linea principale canonizzata, né la trasformazione del testo o del culto, né le eccezioni o le variazioni, perché tutto questo disturba la legittimazione o la mette addirittura in discussione. Al posto di tali dichiarazioni astratte, universali, di validità generale, “ideologiche“, al posto delle grandi narrazioni canonizzate – e teleologicamente costruite, create con missioni legittimanti – gli artisti della nostra epoca cercano piuttosto le realtà antropologiche immediate, che si strutturano nelle rispettive costellazioni sottili del micro-universo e che non sono subordinate ad alcuna finalità teleologica.
La casuale disposizione degli oggetti quotidiani piccoli, comuni, insignificanti nelle loro costellazioni modeste ed effimere caratterizzanti l’opera omnia di Elzevir, oppure le linee fragili, sottili, al contempo immateriali e sensuali, concettuali e concrete dei piccoli disegni di Domenika Horakova, che raffigurano corpi umani, oggetti d’uso, frammenti della vita quotidiana, mobili e oggetti naturali in modo completamente non voluto e senza pretese, tranquillo e immobile, apparentemente indifferente e privo di pathos, senza qualsiasi gerarchia, evocano il reale sostanziale, il concreto radicale, che oppone una dura resistenza contro generalizzazioni astratte, totalizzanti, universalistiche.
Entrambi gli artisti presentano una costellazione fine, effimera e provvisoria delle piccole realtà. Anziché essere determinate da una gerarchia dominante – in qualche modo teleologicamente plasmata e realizzata con forza – questi oggetti ben noti, immediati, concreti e tangibili si lasciano posizionare quasi in modo spontaneo, autonomo, privo di finalità. Il contributo di Elzevir sta proprio nel minimo di creazione che rimane sempre anonimo, apparentemente non voluto, senza intenzioni. Gli oggetti si collocano da soli con una naturalezza oggettiva, neutrale, senza intenzioni. In tutto ciò la dimensione materiale, reale della realtà dell’immagine non trasmette stabilità ma paradossalmente una dolorosa e desolante fugacità. Ed è proprio questa malinconia silente e reale che caratterizza anche i disegni di Domenika Horakova.
8 La silenziosa assenza di avvenimenti nel mondo delle immagini, la semplice autogestione degli oggetti, la spazialità al contempo immateriale, immaginaria, fittizia e la realtà estremamente concreta, generano uno stato enigmatico della coscienza, in cui l’empatica facoltà immaginativa e l’immaginazione liberata evocano delle prospettive poetiche del conoscere se stesso. Tale potenziale evocativo dell’arte si evolve in queste costellazioni sottili e plastiche, e la stessa evoluzione si sviluppa totalmente senza pretese e intenzioni. Quel che ne scaturisce è un’aura – spesso malinconica – degli accenni enigmatici, delle sensibilizzazioni poetiche e delle connessioni immaginarie, attraverso i quali le micro-realtà immediatamente percettibili sono intese come allusioni, ovverosia come accenni a realtà ed esperienze non immediatamente presenti. L’emotività che viene trasmessa ancora più forte dalla fragilità e dal carattere effimero delle costellazioni sottili, caratterizza l’intera micro-narrativa senza che presenti dei momenti patetici. Entrambi gli artisti rimangono per così dire anonimi e, senza farsi notare, si celano dietro agli oggetti e alla loro collocazione semplice, priva di pretese e di intenzioni.
Gusto per l’anonimo, discrezione, assenza di intenzione, concretezza senza pathos, e un’apparente indifferenza verso i momenti personali aneddotici delle figure, sono gli elementi che accomunano i lavori – completamente differenti tra loro per forma, creazione e plasticità – di Ruth Barabash e Ugo Giletta. Entrambi si dedicano al motivo del volto, entrambi negano la caratterizzazione psicologica, aneddotica, l’identificazione personale, culturale, sociale delle raffigurazioni, entrambi operano con la ripetizione monotona di determinati figurazioni e tòpoi d’immagini. Ruth Barabash in particolare accentua lo straniamento delle figure attraverso la ripetuta de-emozionalizzazione e decontestualizzazione, conferendo alle figure femminili collocate senza intenzione una vicina all’altra – con le loro posizioni e gestualità ricorrenti – uno stato di bambola, uno stato di oggetto reale, meccanico e senza volontà. L’ambiguità sconcertante e inquietante si crea dal fatto che queste donne-bambola apparentemente neutrali, reali possono nonostante ciò sembrare confusamente accattivanti e attive, intense e invadenti, addirittura provocanti e comunicative. La loro presenza plastica sembra essere inevitabile.
(Saint-Etienne, 2014)
Note:
1. Jean-Francois Lyotard: Philosophie und Malerei im Zeitalter ihres Experimentierens. Merve Verlag Ber
lin 129, Berlin, 1986. p. 71.
2. Andrew Benjamin: Art, Mimesis and the Avant-Garde – Aspects of a Philosophy of Difference. Routled
ge, London & New York, 1991. p.18.
3. Arthur C. Danto: Postmodern Art and Concrete Selves. The Model of the Jewish Museum. In: Arthur C.
Danto: Philosophizing Art. University of California Press Berkeley, Los Angeles & London, 1999. p.125.
4. Georg Simmel: Das Abenteuer. In: Georg Simmel: Das Abenteuer und andere Essays. Herausgeben von
Christian Schärf. Fischer Taschenbuch Verlag, Frankfurt am Main, 2010. p. 41.