Sabato 15 giugno 2024

alle ore 18:00 presso Villa Belvedere già Radicati (Saluzzo) verrà inaugurata

In levare

di

Stefano Allisiardi

a cura di Silvana Peira

testo di Giovanni Tesio

Stefano Allisiardi, l’arcano incanto delle sue metamorfosi naturali

Due gli elementi essenziali in questo mondo di Stefano Allisiardi:
la natura vegetale del rimando, e il carattere impressivo del segno. Alla confluenza, la congiunzione di un dettato coerente e congiuntivo. La natura come un erbario, la natura come giardino dei semplici, la natura come discesa vegetale dell’umano. Come dice Thoreau in Walking, si può sperare ben poco da una civiltà che abbia smarrito la sua natura vegetale. Ma subito dopo Il guizzo, il tratto sintetico, quello che in letteratura si chiamerebbe lo stile discontinuo, il contrario dell’opulenza: la semplicità, il richiamo e il rimando secco, la suggestione del breve, del principio, dell’epigrafico, dell’allusivo.
     L’arte, a modo suo, è sempre citazionista, perché si nutre di incontri, e se i poeti possono essere ladri di versi, gli artisti sono ladri di sguardi. Ladri, ben s’intenda, virtuosi, perché nel richiamo a qualcuno o a qualcosa realizzano sé stessi, imprimono nel segno i loro affetti, i loro “maggiori”. E qui il segno parla, i colori fiammanti s’incidono in aurore volutamente contratte, come semplicemente accennate, ma vive, ma lancinanti.
     Qui c’è l’ovale. Ovali piccoli e grandi, dai margini a volte esatti e a volte frastagliati che evocano lontananze, compongono universi, fluttuano in metamorfosi in cui è difficile – se non improprio – discernere cielo e terra, concreto e astratto. Un informale che aggalla in forme, mondi – ma ben mi si intenda, per pura e personale illazione – tra Inghilterra e Giappone, tra Turner e Corot, reali ed evocativi insieme; luoghi connotati e terrains vagues in cui soprattutto il rosso incide la sua costante di infusione. Materiali poveri con cui si allude a una impossibile cattura di atmosfere che sembrano congiungersi in un’armonia musicale, in un arcano incanto.

     Carta e vegetale vanno qui coniugandosi in una sorta di simbiosi, di mutua comunione, di reciprocità. E poi c’è la pennellata lesta, che non è tanto uno sfondo, ma un’unità, una stretta parentela che definisce ed esalta il décor. L’effetto è scenografico, ma ad un tempo tutto giocato in levare. La scelta della carta – di questo fermare sulla carta – è un indice di scelta povera, essenziale, ma nel povero il ricco, ma nel poco il molto. Niente di troppo, e dove c’è il meno c’è il più. Una quantità di riferimenti, che qui prendono una via di verità. Non sono – si badi bene – contemplazioni di morte, come a volte accade in certi citazionismi onirici, in certe costellazioni di memoria ritualistica, un po’crepuscolare (gli erbari come cataloghi, per quanto preziosi, un po’ cemeteriali). Ma invece invenzioni di vita, un crogiolo di colori vitali.
    Ma anche qui, non solo; perché negli azzurri e nei marroni, nelle tinte più carnali e più morbide si gioca tutto il tessuto della varietà di natura, di una terrestrità che procede da una profonda immersione. Non c’è figura umana, come in certi medaglioni settecenteschi che colgono momenti d’interni e morbide evocazioni di vita quotidiana ma come fissata in stereotipi. Qui, invece, pur nella remota affinità dei possibili, ad accamparsi è la purezza davvero fascinosa di un’emersione. Come a dire che nella superficie sta la profondità, ma che nell’incanto evocativo del segno e dei colori vive e pulsa il segreto di un’origine.
    Toni accesi, addirittura fiammeggianti che sferzano – la vampa che arde – il fondo spesso cupo, nero, ma anche tinte tenere che gareggiano con celestiali evocazioni. E nell’insieme la lancinante coscienza della luce che incide il buio e lo redime. Non esangui astrazioni, ma l’urto perenne delle tinte che confliggono e nello spesso tempo sposano il loro conflitto nella fiducia di una materia che è sempre viva e vitale. Nell’urto che l’attraversa. 

Giovanni Tesio